RECENSIONE

Vengono da Gosport, nel South Hampshire, gli Arcade Hearts, e si dilettano in un indie-dance-pop che sembra attingere da quella corrente artistica di pensiero, musica e arti visive nota come vapor-wave, in sintesi una sorta di speculazione sul perenne equivoco della modernità.

Non è però agli allestimenti elettronici a impulsi accelerazionisti che viene lasciato il compito di costruire la coreografia di questi tre singoli, dal titolo “Different Place”, “Running” e “Honey”, quanto a una funkeggiante rappresentazione plastica del pop filtrato dagli infiniti corridoi del ricordo e della memoria, per giungere a una sintesi estrema che è ritmo e nitidezza, ipnagogica leggerezza e ricerca al tempo stesso di un senso dell’essere nel contingente.

Gli Arcade Hearts suonano come dei Kajagoogoo del XXI secolo, con bassi in “slap” e arpeggi di chitarre cristalline che a tratti evocano il Christopher Cross più sognante o i Toto da classifica, il tutto con un’attitudine molto vicina all’indie-pop sofisticato ed euro-modaiolo dei Phoenix o la carica febbricitante dei Franz Ferdinand pre-declino con “Always Ascending”;  

L’organismo musicale che prende vita galleggia sospeso in una griglia verde al neon piuttosto che intraprendere un volo icariano dagli esiti sicuramente tragici, senza preoccuparsi troppo del suo perdurare nel tempo, con coscienza della propria veloce deperibilità, della consistenza relativa tipica di un prodotto musicale di facile fruizione che cerca il proprio posto tra gli scaffali pronti ad essere decodificati nel supermarket sonoro-digitale.

Se però riuscissimo a staccarci dalla sindrome del “mal d’archivio” (Derrida?) e dalla sua (compulsiva e pressoché inutile) ricerca di una radice di tutte le cose, e semplicemente ad entrare nel mood di questi pezzi, scopriremmo una vocazione fortemente danzereccia e di puro intrattenimento, quasi come un richiamo mesmerico che una volta seguito ci porta presso il loro palcoscenico, a goderci il groove scintillante delle loro tracce nella location più adatta.

Del resto, qui non siamo all’interno del solipsistico mondo dei rifugi adolescenziali domestici, illuminati dalle magnetiche luci di una playstation, ma confusi dagli intermittenti bagliori che trapelano da sale giochi immaginarie, nelle quali molti di noi consumavano il trip di continuo superamento del proprio score in un isolamento che era però in qualche modo collettivo.

Ancora oggi,  in un sogno lucido che più lucido non si può, fissando uno schermo increduli di fronte agli high score di un Pacman o di uno Space Invaders, leggendo il misterioso nome col punteggio più alto in vetta alla classifica immaginaria ci chiediamo: ma chi sono mai questi Arcade Hearts?

 

Nando Dorelassi

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Arcade Hearts
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