RECENSIONE
Lasciatemi questa non proprio “pia” illusione: se c’è un motivo per il quale gioire sul fatto di avere la Città del Vaticano all’interno del centro della capitale della nostra affaticata e arida Italia, è che senza la sua oppressiva e storica ingerenza forse non avremmo mai avuto i Father Murphy.
Nel 2003, virgulti di una avant-psichedelia morbosa e tenebrosa con l’etichetta Madcap Collective, li conobbi con “No Room For The Weak”, pubblicato dalla Boring Machines, qualche tempo dopo; il concetto di molestia da parte di certi aspetti del Cattolicesimo non ha nulla in questo caso a che fare (fortunatamente) con i tragici, intollerabili e scabrosi fatti magistralmente rappresentati nel film-inchiesta “Il Caso Spotlight” di Tom McCarthy – qui il Catholic Doom assume le forme rarefatte e la presenza fantasmatica di un elemento ossessivo, un po’ come il suono delle campane le cui vibrazioni spesso irrompono nel quotidiano senza la grazia, la delicatezza che un richiamo dello spirito dovrebbe raggiungere, così lontano dal silenzio dell’anima e dal raccoglimento dai sensi.
Esce per Avant Records “RISING. A Requiem for Father Murphy”, ed è quella di un raccoglimentola sensazione che si avverte. Un’ultima messa, una declamazione finale che non appartiene quasi più al regno dei vivi, nel momento stesso in cui nasce, muore.
Il suono è quello scarno scricchiolio, quel metallico strofinio interno della chincaglieria che Federico Zanatta e Chiara Lee si sono sempre portati dietro come opprimente bagaglio delle loro spettrali orchestrazioni. Le voci sono corali preghiere laiche rivolte all’interno di sé.
I Luna Park abbandonati, le fabbriche vuote, qualsiasi concetto di cattedrale nel deserto trova posto nell’oscuro mondo dei Father Murphy, tanto che ci sembra di passeggiare nelle location dominate dal “perturbante” di un racconto a caso tratto da “Teatro del grottesco” di Thomas Ligotti.
Sembra però, nonostante questo caravanserraglio di “materia oscura” che offusca il giorno, di intravedere una luce in fondo al tunnel, sensazione insita nel titolo stesso di questo lavoro conclusivo – vale a dire l’eventualità che il duo abbia maturato in sé l’idea di una necessaria conclusione (teatrale, anzi liturgica) ma abbia al contempo intravisto la scintilla di una futura fiamma – ultraterrena, certo, come è nel loro stile – ma possibile in un prevedibile futuro.
Tuttavia questo non è il momento delle parole di speranza, ma del dolore per la perdita di un’esperienza artistica alla quale attribuire – con tutta l’irriverente ironia del caso a preservare il tutto dal cattivo gusto – una meritatissima fine ontologica, in questa dimensione fatta di vacue forme dell’esistenza. Del resto, come diceva morendo il giovane curato nel celebre film di Robert Bresson, “..tutto è grazia…”.
Nando Dorelassi
