RECENSIONE

Chi ha visto la loro esibizione in occasione del King Tut’s New Year’s Revolution ce li descrive come una fiammeggiante esplosione che illumina improvvisamente la Venue “a giorno”. Il quartetto di Glasgow si muove sicuro di sé in territori tra il funk e l’indie-rock, cari tanto agli Orange Juice di “Rip It Up” quanto ai Talking Heads più arty e trasognati, ma frequenta anche le bizzarre ambientazioni del glam più ruvido e meno iper-prodotto.

Basta ascoltarli nel frammento di cover di Eddie Floyd che si trova in rete per capire come i Vignettes siano fortemente influenzati dalle radici blues e soul, dalla black music che inevitabilmente va a costituire il tessuto connettivo della loro musica, diventando motore propulsore della loro divertita scena.

Così descrivono il loro singolo “Jaqueline”: “Spesso incontriamo un certo tipo di persone alle feste in città, nel cuore della notte, ossessionate da loro stesse eppure seducenti. Anche se la loro vanità è evidente, c’è qualcosa di così decadente e affascinante in loro che non puoi fare a meno di esserne attratto – a volte nella misura in cui, come questa canzone, finisci per diventare tu stesso una Jacqueline nella tua mente”.

Sembrano quasi richiamare le tematiche “weird” di certi racconti del fantastico e del meraviglioso dei primi anni del secolo scorso, nei quali la metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, nel suo occulto disegno dalle imprevedibili direzioni portava i poveri protagonisti a ripercorrere momenti di vita altrui, spesso tragici, perdendo il controllo di sé in un perturbante “essere altro da sé”.

Basta una chitarra ritmica accattivante e una voce irrequieta che si fa largo nervosamente tra gli strumenti per ritrovarci a fissare uno specchio, intenti a sistemare un rossetto su labbra sensuali, in un bagno affollato (nel quale la regia farebbe bene a non fermarsi su bizzarri e scabrosi dettagli) in cui gli occhi, ammaliati, sono tutti fissi su di noi.

 

Nando Dorelassi

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The Vignettes
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